Si parte ogni volta con delle aspettative, con delle idee, ma anche le idee alla fine si godono la loro domenica, e si è più straniti del solito quando accade. Scrivo dall’aeroporto di Beirut, tutto beige tranne il mare. Dopo cinque giorni intesi di visite e parole e parole e sguardi rimane una protagonista: la religione. Qui in medio oriente non hanno tagliato la testa a Luigi XIV, non hanno firmato una pace di Augusta o di Vestfalia. Quando conta, come il calcio per noi italiani (vedi Pier Paolo Pasolini), la religione fa il suo ingresso trionfale su un tappeto rosso e si occupa ogni spazio di parola.

Prima di arrivare al gate mi sono preso ancora qualche minuto per osservare alcune foto della Beirut prima della guerra civile, appese alle pareti lungo un anonimo ampio corridoio. Gli stessi passi che ho potuto compiere liberamente in questi giorni non sarebbero stati possibili anni fa, negli stessi luoghi. Allora mi lascio andare, si è sopraffatti, ma si è contenti, sto qui in attesa dell’aereo, nel vuoto, c’è niente di cui parlare perché c’è troppo di
cui parlare.
Le aspettative risultano sempre disattese semplicemente perché ci si aspetta sempre le cose sbagliate, la realtà è sempre più creativa della propria immaginazione. Tanto vale non farsi illusioni. In Europa non si ha nulla da dirsi, ognuno parla solo delle proprie pene personali, si sa, no? Ciascuno per sé, la terra per tutti. In Libano è diverso, in Libano è tutto irrimediabilmente legato a un credo confessionale che parla per ogni libanese, al posto suo, crea identità, comunità.
Il taxista che mi accompagna all’aeroporto ha un viso fatto “col carbone e col diamante” (PPP). L’esistenza torce il viso e i poveri sono cotti a puntino. Siamo a febbraio ma la macchina sembra un forno a microonde. Era parrucchiere prima e durante la guerra, ora è un taxista. È fiero di essere di Beirut, Beirut “centro” [quale mi domando?] precisa, anche se ora è costretto a vivere in una città vicina per via degli affitti troppo alti. Suo figlio è emigrato, vive in Svezia, ma preferisce il calore libanese, la vita per la vita, null’altro. Le marce della vecchia Nissan entrano di colpo, un cambio automatico d’altri tempi, le ruote già fischiano a causa del caldo e della pressione così bassa da rischiare di finire fuori strada ad ogni rotonda. Ci sono più officine che semafori, dicono che a Beirut non ci sia traffico, è solo un enorme parcheggio in cui nessuno si muove. Non ci sono troppi semafori, c’è l’occhio, il clacson e il meccanico all’angolo che ti aspettano. La brezza che lascio entrare dal finestrino mi tranquillizza, come alla fine di ogni viaggio, come quando lasciavo Shanghai alle mie spalle. “L’indolenza è forte come la vita – e penso a tutti quelli vedono l’emigrazione una virtù. La banalità della nuova
farsa che bisogna recitare…occorre più vigliaccheria che coraggio per ricominciare”;
ma quando si viaggia accade qualcosa d’inaspettato:

“È questo l’esilio, l’estraneo, questa inesorabile osservazione dell’esistenza com’è davvero durante le poche ore lucide, eccezionali nella trama del tempo umano, in cui le abitudini del paese precedente ti abbandonano, senza che le altre, le nuove, ti abbiamo ancora rincoglionito. Tutto in quei momenti viene ad aggiungersi alla vostra immonda miseria per sforzarvi a capire le cose, la gente e l’avvenire così come sono, cioè degli scheletri, nient’altro che nullità, che bisognerà tuttavia amare, vezzeggiare, difendere, animare come se esistessero. Un altro paese, altra gente intorno a te, agitata in un modo un po’ bizzarro, qualche piccola vanità in meno, qualche orgoglio che non trova più la sua ragione, la sua menzogna, la sua eco familiare, e non occorre altro, la testa ci gira e il dubbio ci attira, e l’infinito si spalanca solo per noi, un ridicolo piccolo infinito e noi ci caschiamo dentro. Il viaggio è la ricerca di questo niente assoluto, di questa piccola vertigine per coglioni…”.
Céline, Viaggio al termine della notte
Forse, è solo grazie a questo nulla che si concede spazio all’ignoto, che ci si libera un poco del nostro invadente Io seduto in salotto, per ascoltare storie nuove prima che subentri la stanchezza, prima di organizzare un nuovo viaggio.
La vecchia Beirut è scomparsa ed ora una generazioni di idioti analfabetizzati su macchine di grossa cilindrata e che vive in appartamenti lussuosi si è impossessata del cuore della città mentre al confine con la Siria libanesi e rifugiati siriani non se la passano bene: edifici più decadenti, vecchie Mercedes da mille e una notte. Se si è astuti e attenti osservatori, forse, si ritrova qua e là qualche viso fatto col carbone e col diamante, come il taxista. Nel campo profughi ho trovato questi volti, volti reali che magicamente rompono le fotocamere degli smartphone e si riappropriano dell’umano che è in noi. Poche regole: niente foto, non stringere la mano alle donne, non entrare in casa se non si è invitati. Con i bambini si può giocare. Certo, i bambini non hanno sovrastrutture, non hanno un’appartenenza religiosa, non sono esposti al Nulla. Sono loro a chiedere le foto, sono loro che richiedono il contatto, prima con il sorriso poi con le mani. La loro certezza è la madre che li tiene d’occhio da lontano, nascosta sotto un velo, la stessa madre che li ha tenuti in braccio mentre oltrepassavano le montagne – che segnano il confine di non ritorno – che ancora sono alle loro spalle. Alcune, innevate, nascondono tracce di intere famiglie in transito verso il Libano.
Non si contano più quanti profughi siriani o iracheni siano arrivati, con ancora meno attenzione si bada ai palestinesi, frega niente a nessuno. Anzi, preoccupa solo il mondo delle istituzioni – Chiesa compresa -, tese a mantenere un equilibrio numerico fra cristiani e musulmani. La fede è merce preziosa: “Gli abissi ai profondi”, Nietzsche. Tanto si sforzano gli eruditi ingegneri sociali d’occidente, bottegai dell’umanesimo, sul come far convivere persone dalla confessione diversa tanto gli umili abitanti della terra dei cedri riescono, a fatica, senza basi statistiche, se non quelle inventate, a far convivere in un fazzoletto di terra così tante persone di così tante confessioni. In comune c’è il senso dell’onore delle genti del mediterraneo, dove ognuno si sente un Re.
Laddove c’è silenzio per ascoltare il grido del sofferente, là cristiani e musulmani si ritrovano a condividere gli stetti santi, come San Cherbel. Se la politica funziona da sempre come Macchiavelli e Hobbes ce l’hanno narrata, è vero anche, da sempre, che il vero rivoluzionario della polis occidentale è Gesù.
