Recentemente ho avuto la fortuna di riaccostarmi ancora alla figura di un grande pensatore dell’età moderna: Blaise Pascal. Quest’anno ricorre il quattro centenario della sua nascita e moltissime sono state le occasioni per tornare a riflettere sui suoi scritti, anche papa Francesco (cfr. la lettera apostolica di papa Francesco Sublimitas et miseria hominis). E proprio questa lettera mi ha permesso di intervistare due grandi studiosi – il matematico Alfio Quarteroni e il filosofo Domenico Bosco – nei loro rispettivi campi, sull’eredità di Pascal (le interviste sono disponibili nell’area culturale del sito della Diocesi di Lodi, Peristylium Veneroni).
Da filosofo mi sono sempre chiesto perché Pascal fosse considerato da molti un filosofo atipico. Tra i filosofi moderni più conosciuti, mentre Cartesio e Spinoza sono facilmente – e senza discussione alcuna – ascritti tra i filosofi, ed anzi occupano uno spazio di rilievo nelle storie della filosofia, non così pare accadere per Pascal che, pure, fu egualmente uomo agli albori di quella modernità di cui ci sentiamo eredi. E se anche fu riconosciuto matematico, fisico, polemista e versatile scrittore, non sembra egualmente entrare di diritto tra i filosofi: tanto a ragione di una mancanza di sistematicità, quanto tutt’al più se ne viene parlando come “pensatore religioso”.
A Émile Bréhier, che affermava: “Pascal non è un filosofo” Jean Brun risponde: “Come tutti i filosofi degni di questo nome, Pascal è nostro contemporaneo e non cesserà mai di esserlo“[1]. È contemporaneo non solo per la metodologia di ricerca, ma anche – se pensiamo al costante sviluppo della consulenza filosofica [nata nel 1981, anno in cui Gerd B. Achenbach aprì il primo studio di philosophischen praxis letteralmente Pratica Filosofica] – per l’atteggiamento con la quale Pascal si pone davanti al problema, invitando a orientarsi dal discorso al dialogo.
“Quando si vuole rimproverare qualcuno in modo efficace e dimostrargli che sbaglia, bisogna osservare da quale lato egli considera la cosa, perché di solito da quel lato è vera, e ammettere che lo è; però anche mostrargli il lato in cui è falsa. Questo gli basta, vedendo che non si sbagliava e semplicemente gli mancava la visione dell’insieme. Nessuno si indispettisce di non vedere tutto, non si vuole però essere ingannati. E forse questo deriva dal fatto che l’uomo per natura non può vedere tutto, e per natura non può ingannarsi nella parte che vede, essendo le percezioni dei sensi sempre vere”
Pensieri [594]
Un atteggiamento fenomenologico di stupore dinanzi al reale, quello che in tanti oggi hanno perso, ma che proprio nella pratica filosofica ritrova un senso profondo; un Pascal dialogante e comune, che sa ascoltare le diverse parti, esplicitazione delle ragioni dell’altro, lascia il diritto di non essere convinto in una differenziazione tra l’arte di piacere dall’arte di convincere, apre ad una comunanza di intelligenza, una parola sul quotidiano.
[1] J. Brun, La filosofia di Pascal, Bologna 1996, p.13